Ankara, 9 novembre 2007  – Sventata la paura di un nuovo conflitto in Medio Oriente. La lotta trentennale della popolazione turca contro i curdi del PKK, rifugiatisi nel nord dell’Iraq, stava infatti portando diritti ad un nuovo conflitto. Per fortuna è intervenuta l’azione dell’amministrazione Bush che, in considerazione della rilevanza strategica della Turchia, ha calmato i bollenti spiriti turchi. Due gli interventi risolutori. Il primo, il 2 novembre, quando il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice trovandosi ad Istanbul per la conferenza internazionale sull’Iraq si è recata nella capitale per incontrare gli esponenti governativi. In questa occasione li ha  convinti a non avviare nessun attacco contro l’Irak, precisamente nel Nord dove si trovano i curdi del PKK, in quanto gli Usa avrebbero fatto pressioni sul governo centrale di Baghdad e su quello regionale curdo per stanare i guerriglieri curdi. Ma Babacan, il ministro degli esteri turco, ha prontamente ammonito che “noi vogliamo azioni , questo è il momento in cui le parole finiscono”. Il 5 novembre Erdogan, il primo ministro turco, si è recato da Bush il quale, al termine del vertice, ha sottolineato che il PKK è nemico degli Usa, dell’Iraq e della Turchia, ribadendo la necessità di non alzare lo scontro in Iraq. Insomma gli Usa invadono i Paesi per combattere il terrorismo ma non vogliono che altri lo facciano. Vogliono riservarsi questo arbitrio che solo la loro potenza militare, economica e politica gli riserva ancora. Certo è che in questa circostanza l’amministrazione Bush ha usato buon senso nel prevenire altri conflitti in una area relativamente tranquilla dell’Iraq che in massima parte è ancora occupato dalle sue truppe. Da parte sua il PKK il 4 novembre ha liberato gli otto militari turchi catturati a metà ottobre. Non si sa a quali condizioni per il governo di Erdogan. In questi ultimi giorni Erdogan, nel suo tour per cercare consensi e sondare il terreno diplomatico internazionale, ha incontrato il premier italiano Prodi e il nostro ministro degli esteri D’Alema. Entrambi gli hanno sconsigliato di entrare militarmente in Iraq. Ma quel che conta è ovviamente la posizione statunitense. A questo punto non rimane che attendere se i fucili riprenderanno a sparare oppure se l’azione d’intelligence e di repressione poliziesca interna nel kurdistan iracheno porti risultati apprezzabili per il governo nazionalista turco. Certo è che i centomila soldati turchi rimangono alla frontiera con l’Iraq pronti ad intervenire. Anche perchè la popolazione non ne può più delle azioni del PKK. Ad Istanbul ed Ankara numerosi negozi hanno le bandiere rosse con la mezzaluna turca in bella mostra in segno di appoggio incondizionato a Gul ed Erdogan. Anche gli Usa sono avvisati. Tanto più che gli altri Stati che combattono i ribelli indipendentisti curdi stanno sviluppando delle proprie azioni strategiche. L’Iran e la Siria hanno già effettuato, anche in questi ultimi mesi, degli attacchi lungo la loro frontiera con l’Iraq, ma mentre la Siria appoggia l’opzione turca di una ampia operazione nel kurdistan iracheno, l’Iran si mantiene più prudente per non incrinare l’assa curdo-sciita che avvantaggiarebbe i sunniti. Anche in questa crisi turco-iracheno, come in qualsiasi cosa che accada nel Medio Oriente, i risvolti sono dunque ampi, assai complicati e indefinibili per qualsiasi strategia anche a breve termine. Il cane continua a mordersi la coda.