In Italia nei decenni passati gli editori hanno goduto di abbondanti contributi pubblici e di un flusso crescente di pubblicità a tutto vantaggio del proprio arricchimento. Ciò favoriva anche una disinvolta assunzione spesso clientelare di nuovi giornalisti.  Le redazioni si espandevano ma il prodotto editoriale non sempre cresceva in qualità e in diffusione. Esigue le testate che tutelavano gli interessi dei lettori e che si ponevano al servizio della collettività.

Oggi gli editori corrono ai ripari visto che i contributi pubblici all’editoria si sono ridotti da 414 milioni di euro nel 2009 ai 138 milioni nel 2012 per attestarsi ai  57 milioni previsti nel 2013 e che la pubblicità negli ultimi cinque anni ha avuto una flessione del 22%  perdendo sul campo circa 3 miliardi di euro.  Nel 2013 ci sarà la corsa all’online con una smisurata offerta di contenuti giornalistici in italiano alcuni dei quali anche a pagamento. In un mercato linguistico assai contenuto che frena ogni ambizioso modello di business gli editori hanno fame di spending review. Dalla proliferazione degli stati di crisi aziendali con decurtazione dei salari al 25% ed anche al 50% si passa al diffuso snellimento degli organici redazionali ed amministrativi.

Il gruppo RCS il 19 dicembre punterà sul riversamento dei contenuti nel web, parte dei quali offerti in paywall, con la contestuale chiusura di alcune testate cartacee con esigui lettori, quale ad esempio il settimanale economico Il Mondo.  Il gruppo Finegil-Espresso sta spingendo le testate locali a puntare sulla rete per distribuire i propri contenuti e parte da Trieste con Il Piccolo per mostrare la propria forza.

Le difficoltà del sistema editoriale non nascono negli ultimi lustri e riguardano sia il mercato europeo che statunitense. Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, afferma da anni che la maggior parte delle testate dissimulava la crisi adulterando gli indicatori. La distribuzione dichiarata a pagamento era in realtà offerta in negozi, alberghi, stazioni e il numero di abbonati esibito era gonfiato da operazioni da hard discount.

Ma in Italia c’era una proliferazione di quotidiani e settimanali confezionati da pletoriche redazioni che hanno prodotto scarsi risultati utili al lettore. Forte era l’esigenza di tutelare i propri editori e i loro interessi. La fine dell’editoria pura e la diffusa pratica di editori industriali e finanziari ha contribuito ad offrire prodotti non competitivi con quelli presenti nelle più dinamiche società estere afflitte come noi dal problema linguistico. Altrove si producevano innovazioni e sperimentazioni. Da noi le redazioni ricorrevano alla Fnsi, il vetusto sindacato giornalistico, se venivano privati delle auto di servizio per raggiungere le sedi delle conferenza stampa.

Ora la festa è finita, il lettore ha notizie in tempo reale dalla rete e dalla tv e la carta stampata può solo approfondire ed indagare interagendo con altre piattaforme. Ma con redazioni più snelle,  più entusiaste e più mobili. Si può andare a coprire un evento anche dormendo negli ostelli e mangiando nei fast food. C’è da raccontare il mondo ma occorrono occhi nuovi, voglia di stare tra la gente, desiderio di usare videocamere, reflex digitali e software di post-produzione e voglia di esprimersi almeno in inglese. Solo con questa perenne curiosità si guadagna il lettore e si aggiunge nuovo valore ai propri contenuti.

Da questa forte crisi dei media può forse nascere in Italia un nuovo giornalismo di servizio, che preferisce le piazze e la gente ai riscaldati desk con pausa caffè. E non sarà difficile per gli editori puri più coraggiosi creare nuove redazioni visto che nel Belpaese i giornalisti iscritti sono più di 110mila contro i 40mila o 50 mila che esercitano l’attività nel Regno Unito e in Francia.

Certo se però alla Camera dei Deputati si continua a discutere di difesa ad oltranza del diritto d’autore senza comprendere l’era del free software e dell’open source allora è meglio che la Delega per la riforma dell’editoria si faccia il più tardi possibile. Cresce solo il rischio che l’onnipotente Google diventi anche da noi la prima testata.

pubblicato sul quotidiano online ”Affari Italiani”,  ripreso dal sito di Franco Abruzzo,  Giornalisti per la Costituzione, da alcune pagine Facebook gestite da giornalisti (Di.Gi.Ti., Giornalisti italiani, ecc.) e da AgoraVoix Italia.